di nicola di molfetta
La parola start up è diventata molto di moda tra gli avvocati d’affari. Assistere giovani imprenditori intenti a dare vita ai loro progetti e alle loro idee ha sorprendentemente suscitato l’entusiasmo di tanti professionisti e studi associati che a questo filone d’attività hanno dedicato energie e soldi.
La cosa appare sorprendente (lo ripetiamo) perché, per definizione, chi lancia una start up, è ricco di tante cose (visione, entusiasmo, intuizione) salvo che di denari. Quindi, lavorare per queste imprese in nuce significa lavorare tanto (hanno bisogno di tutto, si sa) e farlo quasi gratis. Il che, considerati i tempi, non è che sia il massimo. Chi frequenta i professionisti sa bene che pressione tariffaria e lavoro sottopagato sono il pianto greco che in tanti non smettono di cantilenare.
Ma che dire, parlare di start up, fare start up, lavorare con le start up fa molto rock ’n roll, come ha puntualmente sottolineato il quotidiano inglese The Guardian. Il che, per certi versi, suona un po’ strano se si considera che a dare il tempo a questa nouvelle vague imprenditoriale è stato uno dei politici meno rock che la storia del Paese ricordi, ossia Mario Monti che, lo ricordiamo tutti, girava in loden e non con un giubbotto di pelle.
A dirla tutta, un premier con giubbino alla Fonzie (o alla Renizie?), poi, è arrivato veramente. E in effetti, il rock ’n roll è proseguito. Il piano industria 4.0 presentato dal ministro Calenda, ha previsto ancora agevolazioni per le pmi e ovviamente le start up confermando quello che ormai è diventato un trend nel nome della ripresa.
Pigliate ‘na pastiglia, cantava una volta Renato Carosone. Di questi tempi, probabilmente, il compianto cantautore napoletano avrebbe scritto Fatte ‘na start up, se non altro per alleviare le sofferenze di quel 40,1% di disoccupati giovani (tra 15 e 24 anni) che guardano con preoccupazione al loro futuro nel mondo del lavoro.
In tutto questo, per moda o per convinzione, come abbiamo detto all’inizio sono tantissimi gli studio legali, italiani e internazionali, boutique o specializzati, che in qualche modo con le start up hanno scelto d’averci a che fare.
La vera domanda è: per business o per marketing? Ufficialmente quasi tutti rispondono la prima. Ma un dubbio in merito ci sarà consentito. Di business, in questo settore, lo ripetiamo ce n’è necessariamente poco. Il tasso di “mortalità” tra le aziende di nuova costituzione e tra quelli che “pensavo fosse una genialata e invece era un calesse” è altissimo. Sperare di incappare nella futura Apple o nella futura Facebook è legittimo, ma anche al limite dell’azzardato.
Si può agire per spirito di solidarietà imprenditoriale o farlo pro bono. Questo è già un approccio più consapevole.
Oppure, con grande onestà intellettuale, si può ammettere che accostare il proprio nome o il proprio brand all’assistenza in favore delle start up è, per lo più, una trovata di marketing. Non c’è nulla di male. Anzi. Se l’operazione è fatta con criterio e trasparenza, diventa sì una Killer application capace di contraddistinguere il proprio studio sul mercato.
Guardate cosa fa Slaughter and May. Lo studio inglese (best friend dell’italiano BonelliErede) ha in qualche modo replicato il modello di un talent. Lo studio ha investito in un programma per la selezione dei “clienti del futuro” battezzato Fintech Fast Forward. Un’iniziativa visibile, ben raccontata e che ha fatto parlare di sé. Si tratta di una sorta di concorso riservato a società del settore (fintech, regtech, insurtech, ecc) che ha messo in palio un periodo di consulenza per un valore di 30mila sterline per 5 realtà emergenti, giudicate particolarmente interessanti. Nel complesso, quindi, un pacchetto di assistenza da 150mila sterline. A selezionare i vincitori (in 25 si sono canadiati) una giuria di livello, formata da personalità del settore: general counsel, amministratori delegati e manager. Saranno stati capaci di individuare uno dei futuri leader di mercato? Si vedrà. Per il momento hanno contribuito a dare una visibilità unica alla law firm.
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